sabato 10 settembre 2011

”Devo andare via ma ti amo ancora”






MICHELE PETRUZZIELLO: FOTOGRAFIE COME OMAGGIO AI BISNONNI E SEGNO DI PROTESTA

Italiani di oggi con uno sguardo a quelli di ieri. Ecco cosa si vede nelle fotografie di Michele Petruzziello: un omaggio ai bisnonni che hanno aperto la strada verso ciò che l’Italia non era attraverso gli italiani che sono a New York con una valigia di cartone (piena di sogni) e l'Italia nel cuore.

Sono 24 milioni gli italiani che hanno lasciato la patria nel primo secolo dell’unificazione, dal 1861 al 1960. Chiamiamola insoddisfazione da Unità d’Italia o possibilità di lavorare in un Paese in cui crescevano industria e dimensioni delle città, fatto sta che il censimento Usa del 1880 registrava 44.230 persone nate in Italia che, all’inizio del nuovo secolo, sarebbero diventate 800.000.

Nell’Italia di quegli anni la fotografia stava muovendo i primi passi, si rivelò ben presto uno strumento di comunicazione di massa particolarmente efficace, e per tale motivo fu piegata alle nuove esigenze della propaganda patriottica per costruire un immaginario visivo del Risorgimento. Garibaldi comprese subito la portata rivoluzionaria di questo nuovo mezzo e ne seppe sfruttare l'enorme potenzialità attraverso i suoi numerosi ritratti, che lo fecero diventare un'icona popolare rafforzandone la connotazione eroica. Anche Mazzini fu molto attento alla propria immagine pubblica, posando sempre vestito di nero in segno di lutto per l'oppressione subita dal Paese e favorendo in seguito la diffusione delle sue foto per sostenere la causa repubblicana. E i Mille, conclusa l'impresa garibaldina, furono immortalati uno per uno in formato tessera, dando vita al primo album di figurine, una sorta di "galleria di eroi", per ricordare a posteriori le loro gesta e farle conoscere in tutto il territorio dell'Italia unita. Ma le fotografie di quell’epoca erano soprattutto di persone in viaggio verso ciò che non era Italia, magari oltreoceano.
Michele Petruzziello è un fotografo italiano che vive negli States. Ha deciso di fare un omaggio a quelle grandi migrazioni unendo e fermando in uno scatto i pronipoti di oggi e qualcosa di quei bisnonni che aprivano la strada all’american dream.



Più che Italia unita quella che ha rappresentato attraverso le sue foto sembra essere l’unità di fuga dall’Italia, giocando tra appartenenza/estraneità di oggi e di ieri. Che Italia esce fuori dalle sue foto?
L’idea di base di questo progetto parte si come omaggio ai nostri bisnonni, ma vuole essere anche una piccola protesta silenziosa contro la precarietà sociale e lavorativa che esiste in questo momento storico in Italia. È un dare voce a tutti quegli italiani, che qui a New York incontro continuamente in vacanza o per brevi periodi di studio, che mi esprimono continuamente il loro disagio nel vivere in un paese che non gli offre un lavoro, o se si, mal retribuito e con la data di scadenza, persone che mi dicono che sarebbe un sogno per loro vivere negli States. Allora ho voluto ritrarre chi nonostante tutto, oltre che lamentarsi, ha preso una decisione difficile, quella di provare a farcela in un paese che non è il suo, anche se si chiama AMERICA.

Se mette a confronto queste foto con quelle di 150 anni fa, quando le valigie di cartone non erano solo evocative e quando non c’era il biglietto di ritorno, riesce a trovare della comunanze? Cosa in queste foto unisce l’italiano di ieri a quello di oggi?
Vorrei rispondere a questa domanda con la risposta che diete un emigrato ad un ministro italiano alla fine del XIX secolo.

«Cosa intende per nazione, signor Ministro? Una massa di infelici? Piantiamo grano ma non mangiamo pane bianco. Coltiviamo la vite, ma non beviamo il vino. Alleviamo animali, ma non mangiamo carne. Ciò nonostante voi ci consigliate di non abbandonare la nostra Patria. Ma è una Patria la terra dove non si riesce a vivere del proprio lavoro?»

A me sembra proprio che stiamo rischiando di tornare ad un secolo fa, quando ragazzi, uomini, donne e famiglie intere si trovavano costrette a lasciare l’Italia per fame. Quello che sta succedendo oggi anche se non in maniera così drammatica si sta riproponendo. I giovani hanno voglia di fare, di trovare una propria identità nella società e come si può fare senza un lavoro, un lavoro che ti appaghi personalmente ed economicamente. Uomini quarantenni che oggi perdono il loro posto si trovano tagliati fuori dal mondo del lavoro con conseguenze enormi per la propria vita e quella dei famigliari. Ora l’America non è certo quella degli anni d’oro, anche qui c’è la crisi e molte persone hanno perso il lavoro, ma se vali davvero allora una possibilità te la danno. Certo è vero, oggi si parte con un biglietto di andata e ritorno, anche io avevo un biglietto di ritorno, e dopo 8 anni sono ancora qui. Premetto che la mia, fortunatamente, è stata una scelta, avevo un buon lavoro e un buon stipendio, ma come per molti per me vivere a New York era un sogno che cullavo fin da bambino, e che sono riuscito a realizzare. Io mi metto nella categoria felici ma “prigionieri”. Felice perché era quello che volevo, ma spesso ho pensato di tornare nel mio paese, ma con quali prospettive? Io ho lasciato un Italia che aveva l’influenza, oggi ne trovo un altra con la polmonite.

Le valigie di cartone nelle sue foto sembrano un po’ una metafora del precariato di oggi. Ma allo stesso tempo, i richiami ai vecchi strumenti di lavoro danno un senso di stabilità, di fermezza nel tempo. Le persone che ha fotografato hanno raggiunto quell’”antica” stabilità?
La valigia di cartone è una metafora, se si apre è piena di sogni e speranze, è quel “bagaglio” personale e professionale che ovunque vai ti porti con te. Insomma rappresenta ciò che sei, come I vestiti che uno si porta in un viaggio, che sono quelli che ti piacciono di più, che più senti che ti rappresentano. Mentre gli strumenti lavorativi che accompagnano tutte le persone da me fotografate, sono il messaggio positivo, uno spot di se stessi insomma, dove ognuno vuole dire: “anche io ci sono e so fare bene questo”, perché non si tratta solo di fuga di cervelli come si sente spesso dire, ma fughe di anime che chiedono solo la possibilità di realizzare il loro sogno, avere un lavoro e possibilmente fare quello che si ama fare. E molti qui sono riusciti a trovare il lavoro che amano fare, come chi ho fotografato sta facendo quello che volevano fare, per alcuni è stato più facile per altri più difficile, ma bene o male tutti si stanno realizzando.

Negli Usa diverse cultura e un’unica identità collettiva, da noi una cultura e tante identità. Per questo magari era anche più congeniale fotografare italiani?
La scelta di fotografare italiani è stata dettata semplicemente dal fatto che mi coinvolge in prima persona, insomma anche io lo sono, italiano e emigrato, e ho più contatti con gli italiani che con cinesi o messicani ecc. E poi davvero questo è un progetto che prima di tutto viene dal cuore e poi dalla pancia, è un messaggio da italiano all’Italia, ma un messaggio d’amore, come quando una storia tra due innamorati finisce nonostante ci si ami ancora, finisce solo perché non ci sono state le circostanze affinché questo rapporto sia potuto andare avanti, come dire devo andare via ma ti amo ancora.


Come metterebbe in uno scatto questi 150 anni di italiani?
Quello che mi sembra di vedere sinceramente è che c’è davvero questa crisi tra l’italiano e l’Italia, non voglio ripetermi ma proprio un rapporto amore-odio, e allora l’immagine che mi piace pensare è quella di tutti gli italiani che vivono nel mondo, che sono fieri e lo saranno sempre di essere italiani, perché si é vero che da fuori si vedono amplificati i difetti del nostro paese, ma é pur vero che si apprezzano ancora di più tutte le cose belle che l’Italia ha e che nessuna America potrà mai darti. Come si dice, ti accorgi quanto ti manca qualcuno sopratutto quando questo non c’è più.





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2 commenti:

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  2. l'emigrazione è un tema che siamo portati ad affrontare quotidianamente per via della complessità dei problemi che ci riguardano da vicino. Il viaggio di andata verso un paese sconosciuto per cercare fortuna è una delle scelte a cui si è spesso costretti perchè non si hanno alternative nella realtà attuale. L'impresa di adattarsi ai costumi e agli stili di vita americani, che sono stati resi imperanti grazie alla globalizzazione, mi sembra emergere in alcune di queste foto. Mi riferisco alla prima e alla terza fotografia che mi fanno pensare ad un italiano che si porta ancora addosso l'immagine di emigrato con la valigia di cartone alla ricerca di un sogno, e che però si trova sballottato in un posto senza le proprie radici. Il teschio mi ha colpita perchè mi ricorda la disperazione, la povertà, la fragilità economica che stanno alla base dei viaggi della speranza e leggendo l'intervista mi sono sentita molto coinvolta perchè si vivono queste esperienze bene o male in famiglia, oppure si ascoltano quelle di altri giovani, e soprattutto di africani, che arrivano fin qui e soffrono per la mancanza dell'"odore di casa". In fondo non possiamo non guardare come eravamo ieri e com'è difficile oggi ancora andare avanti in un' Italia che sta invecchiando, e non offre l'opportunità di poter costruire un futuro stabile e sereno.

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