mercoledì 17 giugno 2009

Dissuasioni musicali

States: cd contro l'immigrazione clandestina



Negli Usa sporcarsi le mani è roba vecchia. Immigrazione clandestina dalle frontiere del sud? Prigionieri che non parlano e non aiutano la Cia? Ci sono metodi molto più trendy: compilation ai media, Springsteen ai detenuti.



C’era una volta la frontiera. Quella che portava agli States. C’erano gli immigrati messicani che dal sud cercavano di andare a nord. C’erano immigrati clandestini che, invece di fare il percorso in barcone (come siamo abituati a vedere nel Mediterraneo), attraversavano il deserto con mezzi di fortuna o con l’aiuto di narcotrafficanti. C’era (più di) una volta la morte. Nel 2005 sono arrivate a 492 il numero delle bare che hanno ripercorso all’indietro la traversata del confine.

La soluzione del governo americano? Un Cd. Una compilation, la “Migra Corridor”, con 5 tracce create per dissuadere i “migras” messicani dal fare la letale traversata verso la libertà. 5 ballate di narrativa messicana popolare che affondano le radici nella Spagna medievale: quel genere di canzoni a cui i messicani e le comunità messico-americane sono molto legate.

Alla modica cifra di 3,8 bilioni di dollari (poco meno di 3 miliardi di euro), l’Iniziativa di Sicurezza della Frontiera ha così finanziato la rielaborazione dei brani. Complici radio e televisioni messicane che hanno trasmesso le canzoni facendole passare come annunci di servizio pubblico. Il cervello di tutto è Elevacion, un’impresa pubblicitaria specializzata nei target per il mercato latino, che ha provveduto a scrivere, registrare e distribuire l’album in modi non proprio trasparenti. Pablo Iziquierdo, vice presidente di Elevacion, ha spiegato al The Guardian “quando abbiamo contattato i media messicani l’abbiamo presentato (il Cd) come una campagna umanitaria. Non abbiamo detto chi c’era dietro perché le ricerche sui consumatori avevano indicato che non sarebbe stato ben accolto”. Quindi si è preferito far pensare che ci fosse il governo messicano dietro: “L’ultima cosa che volevamo era metterci su un ‘pagato dagli Usa’. L’importante è che se abbiamo spinto le persone a pensarci due volte, abbiamo avuto successo” ha detto Jimmy Learned, il presidente di Elevacion.

La novità degli Usa, da sempre portatori di mode e trend, è nel far entrare il messaggio in una dimensione – la musica – che è sempre stata tramite di idee, di banalità, di verità o semplicemente di storie orecchiabili. Ma mai di iniziative di propaganda dello Stato (anche se un’eccezione può essere fatta se pensiamo alle presidenziali del 2008, con le apposite canzoni di sostegno ai candidati Obama e McCain).

Subdola. Strategica. Apparentemente innocua. Eppure efficace. Il Cd in uscita tra maggio e giugno 2009 è il secondo. Un progetto del genere è stato avviato nel 2006. I Cd erano stati inviati alle stazioni radio del Messico, di El Salvador, del Guatemala e della Repubblica Dominicana, in accordo con Arizona Family e l’Associated Press. In particolare in Messico i Cd erano stati diretti ai sei Stati che, secondo le ricerche della Elevacion, registravano il maggior numero di migranti che partivano per la frontiera: Zacatecas, Michoacan, Guanajuato, Guerrero, Jalisco e Chiapas.

Inizialmente erano solo segmenti di canzoni, poi gli ascoltatori hanno cominciato a richiedere alle radio di ascoltare le versioni intere. Tra i funzionari del “Border Patrol” si parla di diminuzione nelle morti e nei salvataggi lungo il confine meridionale: 492 morti nel 2005 e 390 nel 2008, 2.550 persone in pessime condizioni salvate sul confine nel 2005 e 1.263 nel 2008.

I testi delle canzoni sono decisamente diretti. Eccone alcuni esempi:


“Abelardo aprì i suoi occhi, e nel mezzo della fredda notte, trovò suo cugino morto accanto a lui” (El Mas Grande Enemigo)

“Prima che tu attraversi il confine, ricorda che puoi essere lo stesso un uomo tirandoti indietro e restando. Perché è meglio tenersi la vita che arrivare alla morte”. (Veinte Años)

“Mi mise in un rimorchio, lì condivisi i miei dolori con 40 immigrati clandestini. Non mi avevano mai detto che sarebbe stato un viaggio verso l’inferno” (El Respeto)


Non dimentichiamo Guantanamo: dal 2003 la musica è usata come forma di tortura psicologica sui detenuti. Lo scorso dicembre Reprive – un’associazione per i diritti dell’uomo che offre sostegno legale ai detenuti di Guantanamo – aveva avviato un’iniziativa, Zero dB, per porre fine alle torture psicologiche che usano la musica come arma. L’iniziativa aveva avuto grandi nomi a suo sostegno, da Bruce Springsteen ai Rage Against the Machine e i Massive Attack.

Qualche nome delle canzoni più in voga tra le torture? “White America” e “Slim Shady” di Eminem, “Enter Sandman” dei Metallica, “Born in the Usa” di Bruce Springsteen, “Hell’s Bells” degli AC/DC, e ancora Aerosmith, Limp Bizkit e Prince. E se ascoltare alla lunga “We are the champions” non sembra troppo un dramma detta così, pensate a cosa dev’essere ascoltare anche solo una volta, per intero, una canzone di Britney Spears (anche lei nella lista nera con Christina Aguilera e i Bee Gees)… Meno male che negli Usa non è arrivata Arisa!

Vietato da Onu e dalla Corte europea dei diritti umani, l’uso della musica ad alto volume nelle interrogatori continua ad essere selvaggiamente usato. Impossibile non farsi venire in mente alcune scene di “Apocalyps Now”... Più o meno 20 anni fa a Panama, e non in un film, già venivano usate le canzoni dei Guns N’Roses e di Elvis Presley a tutto volume per spingere l’allora leader Manuel Norriega a dimettersi.

Non restano segni. Lo dimostrano diversi detenuti di Guantanamo come Binyam Mohamed che, dopo 18 mesi di tortura in una prigione segreta del Marocco, racconta a Reprieve: “Molti perdevano la testa. Potevo sentire gente che picchiava la testa contro muri e porte, gridando di non farcela più”.

E se Maroni considerasse i metodi statunitensi? Ce ne accorgeremmo da un Pappalardo a tutto volume nei Centri di Identificazione ed Espulsione (o direttamente nelle radio) che canta: “Ci siaaaamo… Noi non torniaaaamo”…


Fonti: Arizona Family, The Washington Post, The Guardian, Reprive